Poco tempo fa, molto poco tempo fa, cercavo di decifrare la mia scrittura di qualche anno fa, molti anni fa. Una montagna di carta che poi ho buttato, prima di leggere per l'ultima volta, piangere e ridere per l'ultima volta di quando parlavo di me usando ogni volta un nome a caso, che non era mai il mio, nè mai lo stesso.
Peter Greenaway potrebbe avere avuto problemi simili, ma invece di portare tutto alla raccolta della carta dell'Hera, ci ha fatto un film. The Tulse Luper's Suitcases. Che ci abbia messo una vita intera, che non abbia potuto farne a meno di pensarci ogni giorno almeno sette(numerandole) volte, non implica il fatto che il risultato finale abbia un ordine.
La cronologia dell'accumulo è resa fedele, riportata in cameo sulla pellicola in forma di archivio, ufficio, sgabuzzino, in cui si trova rinchiuso il sosia del protagonista, che è il sosia di Joseph Smith o dell'angelo Moroni.
E' un altro documentario sulla raccolta, o la raccolta delle raccolte. Dentro ci sono catalogati i fratelli siamesi Oliver e Oswald che raccolgono fotografie progressive di animali in decomposizione (a Zed and two Noughts, Greenaway 1990), c'è un Luper di un ventennio fa che misura la percentuale di artificialità nel paesaggio ambientale odierno, catalogandone il grado di perfetta verticalità visibile (Vertical Features Remake, Greenaway 1978), che sono pochi fra i rimandi autocitazionistici. L'impilamento sembra crollare in ogni momento, ma non finisce mai per essere letale a sè stesso; anestetizza le emozioni, ugualmente ipnotizzando, come spesso riesce a fare ogni tipo di sapere enciclopedico. A proposito uno di questi può essere la Storia, non solo quella di Moab, di Luper, dei Mormoni ma tutta quella del ventesimo secolo presa tutta insieme come cambiamento, simboleggiato dall'Uranio, novantaduesimo elemento come novantadue solo le valige di Tulse, e come l'età che lui stesso avrebbe nell'anno di uscita del film. Quando le valige finiscono nella testa la pellicola prosegue silenziosamente. La valigia numero 93 contiene gli errori, i rimproveri, le sciocchezze e le esagerazioni, le banalità, i rimpianti e le noie che una volta o l'altra qualcuno o qualcun'altro nota in tutti gli altri film ma che questa volta rischiano di mettere in discussione il metodo di critica al primo secolo del cinema, e al cinema stesso.
Il secondo rischio è anche un consiglio, ossia quello far sì che ci sia almeno una seconda visione, nonostante il secondo episodio inizi e continui per tre quarti d'ora con le quasi stesse scene del primo. Come dice Greenaway, i film dovrebbero essere tutti di almeno sei ore, e questa volta come non mai il tempo è indispensabile, come quello che serve per abituare gli occhi al buio. Se serve un esempio, ho in mente le lacrime che ho trannenuto fino almeno alla metà del film, l'angoscia per un possibile declino della produzione di uno dei miei registi preferiti, l'arresa all'inevitabile dopo due giorni, e tutto quello che poi è diventata la soddisfazione di quando si è finito di vedere qualcosa da non cambiare in nessun modo, da non toccare per non nuocere all'equilibrio funambolico su cui si regge da solo.