04 marzo 2005

Ogni volta che il sole prova a farci credere che questo e' un mondo meraviglioso, in un' illusione che dura fino alla nevicata del pomeriggio, io penso camminando sul ponte che e' ora di spostare Kubin, Autechre, Concretes e Primus, e Schubert, e Shostakovich, e Velvet e Belle e Godspeed e Laika e Cutler e Hancock nello scatolone, dove inevitabilmente qualcosa deve stare. E d'ora in poi surf'n'roll.
Ma non e' proprio cosi' semplice come tutto appare quando il sole crudelmente inganna l'esercito degli insonni metereopatici. Accade che ascolto Smile per intero una volta, mi si alzano i peli delle braccia, ma dalle finestre continuano ad entrare spifferi, e i brividi allora sono tutt' altro che Good Vibrations.
Una delle mie scene preferite di Il Dono e' quando Fëdor Konstantinovic passa le giornate a prendere il sole sulle rocce e fra gli arbors con gli occhi chiusi e le braccia aperte fino a diventare piu' marrone di qualsiasi altro pietroburghese. E' immerso dal sole e sguazza nelle critiche sarcastiche alla sua biografia di Cernysevski, di cui anche noi cominciamo ad averne abbastanza. Attraversa a nuoto il lago in un ormai non piu' estreano scoppio di energie e sull'altra sponda incontra trova un sosia del suo ufficiale alter-ego, si discute sulle sorti della Letteratura e, come in ogni buon romanzo che si rispetti, della natura del Tempo.
Fëdor torna indietro, ma trova che qualcuno ha rubato tutti i suoi vestiti e allora si incammina verso casa mentre fa sera, in costume da bagno, attraversando il centro di Berlino sul fare della sera, senza chiavi nè dignità davanti ai poliziotti tanto vestiti e intestarditi dalla legalità da non accorgersi della palese contraddittorietà della sanzione, in una sequenza che farebbe impallidire dall' invidia Paul Thomas Anderson.
Fra poco più di un mese sarò nel paese nel quale per far succedere qualcosa di strano, bisogna far piovere rane, ci penso spesso, è la prima volta che vado in U.S.A..

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