29 ottobre 2004

(ontem como hoje)

Alle otto e un quarto l'ultimo giorno di festival eravamo in diciassette, sorpresa. Ho preso il caffè e poi l'ho rovesciato con un piede sulla moquette in sala mentre cercavo una posizione comoda. Quando so di stare per vedere un film di un ultranovantenne con un titolo pomposo di solito cerco di una posizione comoda, contando che probabilmente non avrò il coraggio di recupare il sonno proprio in quei centoventisette minuti. O quasi non ci ho pensato affatto a cosa avrei visto, mi sono accomodata piuttosto nel pregevole vantaggio di vedere i film appena usciti dalla fabbrica, senza che abbiano addosso un prototipo di scheda filmup. Quindi quei centoventisette minuti li passo ad occhi aperti e brucianti, visto che i dialoghi interminabili e il cavalletto eternamente incastrato mi si rivelano tutt'altro che onirici, il portoghese preciso e i passi contati vanno tutti bene, pensavo, è prima di tutto un piacere da vedere e da sentire, quello che ci vorrebbe ogni mattina (peccato per il caffè). Ma la lucidità scarsa mi lascia in stato di attesa per tutto il film, un attesa che non centra nulla, sarebbe da capirlo subito, perchè nulla accade.



Il sedicesimo Re del Portogallo è diventato tale troppo presto, quasi ci è nato, non solo con il titolo, ma con una certa agitazione nel sangue difficile da calmare nella sua posizione. E la sua posizione, meglio di così non potrebbero farmelo vedere, è sostanzialmente seduta sul trono che padroneggia il punto di fuga, in una stanza in penombra quanto basta per non rivelare l'ora del giorno. Si potrebbe anche non essere in Portogallo, chi mi dice che siamo in Portogallo? Prima della fine decreto la penombra il mio ontem como hoje , un chiaro: ci sono il castello e i colletti arricciati perchè faccio cinema, ma tolti quelli ne rimane la stasi da situazione ristagnante, la ridicola vocazione alle imprese epiche, ora come allora, qua come ovunque.
Non conoscevo la storia del Re Sebastiano, non sapevo che avesse infervorato tanto i portoghesi da far sì che questi lo aspettassero secoli dopo la sua morte e disfatta in una missione-suicidio in Marocco, ma anche ora che lo so ho l'impressione che poco importi. O almeno a poco sarebbe servito durante i titoli di coda, senza caffe' e senza piu' gli occhi eravamo tutti sicuri (e zitti) di aver visto una realistica descrizione di quei poco divertenti momenti sospesi fra attesa e nostalgia e di cui tutti parlano, ma di cui solo chi e' vecchio quasi come il cinema sa parlare con chiarezza.


21 ottobre 2004

(now, do the ostrich, all right, here we go)


Immagino capiti spesso anche a voi di dedicare indimenticabili minuti allo Struzzo della Einaudi. No, non dico in modo figurato, dico proprio a guardare bene la figura dentro all'ovale.
Insomma se vi succede, se nel mezzo di un romanzo avvincente vi viene da chiudere la copertina molle per cercare di capire se quella che avete appena letto e' una trovata geniale o una frase scritta male, vi sarete anche ormai accorti che lo Struzzo sta li' a farvi capire che lui lo sa', ne e' consapevole del fatto che stai cercando di decomporre del cemento armato. Infatti lo Struzzo sta cercando di mangiarsi un chiodo, per solidarieta'.
Oltre a questo, lo struzzo, ha altre interessanti caratteristiche peculiari. Per esempio e' l'uccello che piu' di tutti assomiglia ad un rettile, fa l'uovo piu' grande di tutti e in inglese ha un nome che non si spiega.
Lo struzzo ha un cervello evidentemente piccolo rispetto alla sua statura, ma se fosse altrimenti sbanderebbe in avanti e ci vorrebbe un collo enorme a reggerlo e cosi' via. Ma, come succede spesso, se si danno punti all'aerodinamica se ne sottraggono alla sagacia e allora lo struzzo sa bene che quando vede buio, probabilmente non e' lui ad essere cieco ma tutto il resto ad essere scomparso. Io proprio non me la sento di smentirlo.

15 ottobre 2004

(il mondo del futuro)

Venti minuti fa stavano allestendo le bancarelle dei libri usati e allora ho iniziato a starnutire, ho starnutito per circa cinque minuti, simulando indifferenza, ma senza riuscirci. E allora un vecchio di quelli che possono solo stare a banchi "tutti a 1€" perche' non sanno maneggiare i soldi mi dice tutto bene signorina? Intanto tirava fuori dagli scatoloni "IL MONDO DEL FUTURO" di Kenneth K. Goldstein, tradotto da Carlo E. Gallotti nel 1969. Anche questo costava 1€, ma era piu' bello di tutti gli altri. Dentro ci sono moltissime foto di modellini di autostrade futuristiche e immagini con il filtro verde di scienziati con i becker intenti a studiare il modo per incrementare la produzione di carne e latticini. Le foto del presente invece sono colorate normali, e hanno didascalie come Il sovrappopolamento puo' provocare vari disturbi psichici quali aggressivita' e senso di frustrazione.
Kenneth K. Goldstein sapeva bene cosa sarebbe successo, figuriamoci. Altro che un futuro ancora piu' sbalorditivo, nella sua realta', di quello che ci ha fatto intravedere la fantascienza. Poi ci sono le fiere immagini di polli incasellati nelle gabbie con didascalie che elogiano l'efficenza dei nuovi metodi e quelle dei "calcolatori" con cui sara' possibile fare il progetto di una casa, con una ragazza che usa una penna ottica direttamente sul monitor (si stava meglio quando si stava peggio, GIMP e' del tutto insensibile alla pressione della mia tavoletta, che si rimedi per favore).
Questo innocuo volume di "International Library" ha lo scopo di mantenere una coltre di comodo ottimismo e quindi di menti annebbiate (c'e' anche un preannuncio subliminale sottoforma di una inverosimile citta' piena di smog, dal quale emergono solo le punte dei grattacieli) in modo da prevenire catastrofi da panico, suicidi collettivi e profezie che si avverano.
Kennet K. Goldstein e' chiaramente uno pseudonimo da scienziato ebreo di copertura, non e' difficile accorgersi che l'autore gia' stava progettando la sommossa che proprio in questi giorni si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Le macchine del caffe' si stanno chiaramente ribellando, e aggiungerei che non e' da prendere alla leggera. La privazione del caffe' e' solo un ulteriore passo verso il letargo della specie e la conseguente ascesa dei calcolatori.

08 ottobre 2004

(se si pensa che si stia tranquilli a far nulla)
La vita e' difficile anche per noi; si conti, per esempio, tutto lo spazio occupato dalle intenzioni sospese, il disagio che suscita l'osservare la gioia del compimento da parte degli altri e al trovare troppo magra come consolazione il loro conseguente horror vacui.
O magari si prenda questo come prova del fatto che le opere migliori saranno sempre e comunque inaccessibili (l'istinto di iniziare cose nel maggior numero possibile associato al completo disinteresse nel finirle e' segretamente diffuso per ovvie ragioni, l'autore pigro poi trova un modo per considerare l'incompletezza la ciliegia sulla torta della coerenza del suo prodotto sacrificando uno dei presupposti necessari per diffonderlo) al pubblico se non anche all'autore stesso, come le pellicole di lisbon story (quindi i romanzi incompiuti sono un genere letterario, non lasciamoci ingannare).
E a pensare questo si riesce a stare tranquilli? Si pensi alla scomodita' di non provare noia a fissare il muro o il soffitto per un tempo lungo e dilatato, e dell'essere interrotti da qualcuno che intima di usare lo stesso tempo per, che so, imparare a guidare la macchina.
Che poi guidare alla macchina non si addice a chi ama far nulla, andare a piedi da un posto all'altro e' un alibi prezioso a cui nessun irresponsabile vorrebbe rinunciare. (Giustissimo)
Volevo solo dire che Varieties of religious experience non solo non infastidisce come temevo ma si presta bene ai repeat all come tutto il resto (questi giorni sono tutti un'attesa di venerdi' quindici).

01 ottobre 2004

(ooh no, all right, oh yeah)
Per fortuna che esistono i chiodi da piantare, i canali della tv da sistemare. Per fortuna che esiste anche un modo scemo di suonare la chitarra, altrimenti mi dimenticherei, ogni tanto, di vivere in un mondo che alla fine, alla fine e' abbastanza analogico. Di colpa, ammetto, di prendermene non piu' della meta', quello che basta per una responsabilita' rappresentativa e un po' di piu'. E a dirlo, forse, nemmeno lo saprei di cosa e' la colpa se la vita nelle citta' del nostro pianeta sta cominciando ad avere un aspetto piuttosto finto. Ogni ipotesi e' azzardata, ne faccio a milioni di notte, ma mi guardo bene dallo scriverle. Ma probabilmente e' anche gia' passata l'epoca in cui una tela, che so, di Hopper era decisamente piu' credibile di un articolo sul Guardian, e sono nel pieno di un revival, di quelli che vengono fuori autonomamente se non si ha nulla da fare.
In questo modo sembra una malattia, e' che non ci siamo ancora abituati all'inevitabilita' della nostalgia, per questo lo scrivo in quel modo. Qualcuno, a pensarci le eccezioni sono talmente tante da essere intrascurabili, pero' se ne e' accorto davvero, i pionieri ci mettono poco a trovare le cose e a costruirci sopra il business adatto, come dev'essere.
(Questo, devo dirlo, lo penso mentre ascolto i !!!, che trovo un esempio dell'enorme divario che puo' esistere fra perfetta armonia del complesso e inutile banalita' di ogni sua parte, e' davvero una buona ragione di esistere direi). Superato ogni possibile post-, posso dirlo anche io, c'e' una fastidiosa urgenza tangibile di non essere, almeno per un attimo delle formiche impazzite.
Ma per fortuna, soprattutto, che c'e' John McCrea, che con un artificio che a me sara' celato per sempre, riesce ad essere tranquillamente prolifico. Sono esattamente dieci anni e cinque dischi che i Cake riescono a non sbagliare nulla e a dare l'impressione di prendersela comoda. Tanto che per una volta ci si puo' permettere il lusso di ascoltare Pressure Chief solo dopo aver tolto dalla plastica la familiare cover giallina di cui non si puo' non aver fiducia. Insomma, per fortuna.



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