26 settembre 2004

(un guaio)



Fare il cinema vuol dire quasi nient'altro che che mettere le proprie frasi in bocche meno ridicole della tua, mi risuona in testa nei giorni un po' peggiori. Siccome Der Stand der Dinge ormai non riesce piu' a fingersi nuovo nemmeno in sala, mi viene, per stanchezza, di vedere i personaggi come manichini e, assieme, scorro mentalmente i dialoghi e la loro minuziosa e la loro concisa descrizione scritti a macchina. Allora quelle righe sentenziose si sbucciano un po' fino ad assomigliare troppo alle autocitazioni del regista Fritz, delle quali le comparse altrettanto ubriache ridono, pur dandogli ragione.
Mi viene in mente quello che pensavo a guardare Land of plenty. Assieme a siamo alla frutta, pensavo a Samuel Fuller in Der Stand der Dinge. Samuel Fuller in Der Stand der Dinge che dice la vita e' a colori ma il bianco e nero e' piu' realistico non ha fatto fatica a sovrastare la missionaria precoce che salta sui grattacieli con l'i-pod nei jeans.
La tesi di Fuller era molto piu' convincente, e sembra difficile smentire anche la sua evoluzione piu' diretta (la vita e' in digitale, ma la pellicola e' piu' realistica), pero' Wim Wenders ha voluto provarci lo stesso. E' quasi certo ormai, che le cose stanno cosi'; quando si pretende di utilizzare il digitale per rendere il vero succede sempre un grosso guaio. Che si guardi lo schermo che si sposti lo sguardo attorno e di lato, non si riesce comunque a vedere a un palmo dal naso. In questo modo la beffa diventa esplicita, e il pubblico che dopo un secolo e' geneticamente dotato di una lente per decifrare la realta' sfasata si ritrova costretto a lasciar perdere ogni strumento di astrazione per rilassarsi come fa davanti al tg delle 12.
Dietro di me sento i singhiozzi con le ultime scene di Land of plenty, che sembrano dire e' proprio cosi', tutto quello che si puo' pretendere da un film che vuole essere all'altezza dei suoi rivali documentari, ormai altrettanto distribuiti.
Non so, non e' la Germania, ne' il Portogallo, ma almeno non e' New York; ogni tanto sullo sfondo si vede il Million Dollar Hotel.

16 settembre 2004

(niente gloria nè leone a chi non ha distribuzione)



La parte migliore è stata superare la tristezza della cestinazione di una teoria ben costruita, scritta anche, per filo e per segno, che metteva più o meno tutti i quaranta film visti in dieci giorni nello stesso sacco.
Tutte quelle mie parole, riportate un po' a matita nel parco della tregua vicino al Palatim, e un po' nella maniera più consona appena ritornati al mondo, prendevano come partenza, come esempio e come testimone le risposte di Damien Odoul al termine della proiezione del suo illuminante Morasseix. Per quanto suoni divertente, il film che ha innescato il processo è l'opera prima del regista di sopra, destinata ad uscire nelle sale ("pout être") l'anno prossimo, nonostante sia stata girata dodici anni fa.
Di seguito a una stupida domanda riguardo alla "cattiveria" dei suoi personaggi, Odoul ha cominciato a girare attorno alla violence poétique, marcando il fatto che non a questa fosse dovuta la mancata distribuzione, ma al poco interesse che potevano suscitare dei personaggi sostanzialmente contadini. A Morasseix, però, sono tutti pazzi, non se ne sono accorti?
Ma, senza estremizzazioni gratuite, sono piuttosto personaggi la cui individualità dirompente non permette di farsi problemi di categoria, nè di scendere a compromessi pur di ribadirla.
Non è mai troppo triste cestinare teorie su ciò che si ama, piuttosto ancora non riesco a non dispiacermi per chi a metà pellicola cerca a tentoni l'uscita perchè di poetico proprio non vede nulla nella perfetta e dolce coerenza di Cèsare/Odoul che uccide suo padre nell'erba alta.

01 settembre 2004

(pero' e' vero anche il contrario, come qualunque altra cosa al mondo)

Che cosa puo' davvero spingerci a cercare nei sotterranei della biblioteca l'unico libro ungherese disponibile in traduzione? Non lo so davvero. Probabilmente, in certi casi, qualcuno si prende la briga di avere pena per quelli che girano per gli scaffali come se avessero lasciato una banconota da venti in un volume restituito, ma che di sicuro non si ricordano quale. Qualcuno, o qualcosa insomma, che senza sforzi li faccia andare a colpo sicuro; ma ormai indagare anche su questo e' diventato fuori moda, basta.
Volevo dire, che cosa stessi cercando prima di trovare Kornel Esti non me lo ricordo davvero, di sicuro non un altro romanzo sul doppio.
La personificazione della guerra fra i poli opposti di una personalita', i quali poli sono particolarmente opposti e' un sentiero talmente battutto in letteratura che non si e' fatto scrupoli nel presentarsi, nell'ultimo mese, in quattro mie letture quasi consecutive. Non l'ho fatto apposta, e questa volta ne giravo di proposito alla larga.
Ma e' successo ancora. Le mirabolanti avventure di Kornel presenta se' stesso come un romanzo scritto a quattro mani, due delle quali efficaci ed ermetiche, due invece inguaribilmente romantiche; tutte e quattro nate allo stesso giorno ed, incredibilmente, alla stessa ora. Il patto prevede 5 similitudini su 10 e 50 aggettivi su 100, in modo da mantenere una paradossale coerenza esteriore ed un ritmo che mi piace piu'di quanto mi aspettassi. In proporzione con la mole leggera, i capitoli cominciano ad essere confortevoli gia' dall'inizio rendendo possibile il sempre preferibile consumo senza interruzioni. Non si puo' parlare di se' stessi che parlando di qualcun'altro. Kornel Esti piu' che un altro nome da pretesto, e' piu' il nome della parte trascurata di Kosztolanyi che si accorge, a meta' esistenza, di avere pure lei una certa dignita' e di conseguenza qualcosa di interessante da raccontare. Segregato dalla societa' fin da piccolo, perche' cinico e cattivo, Kornel racconta dei suoi vagabondaggi in posti che, giura, esistono davvero. Ogni avventura (e cosi' davvero si puo' chiamare il primo giorno di scuola elementare, o la conversazione con il controllore sul treno) ha l'incredibile pregio di costringerci a rivedere ogni volta il nostro sistema di verita' e giudizi standard; guai a pensare che possedere denaro sia una buona cosa (in tutte le lingue esiste almeno un'espressione che indica i problemi derivanti dalla mancanza di denaro, ma solo in francese ne esiste una per indicare quelli derivanti dal suo possesso) e, ancora peggio, dare per scontato che la sincerita' sia controproduttiva per i commercianti (a "citta' onesta" sul cartello di un mendicante c'e' scritto Non sono cieco. Porto occhiali scuri solo d'estate per non ingannare le persone caritatevoli, e tutto chissa' perche' funziona alla perfezione).
Jozsef Pacskovszky ne ha fatto un film che, senza misteri, non e' uscito in italia, ma che mi offre un'immagine esplicativa.



A proposito di farne film, mentre scrivevo questo ignoravo del tutto che Richard Linklater stesse cercando di dirigere, nell'adattamento di A Scanner Darkly un cast d'eccezione. Wynona Rider senza lode ma senza infamia nella parte di Donna, Robert Downey con gli occhiali verdi per far capire che e' Barris. Woody Harrelson non mi sembra credibile nella parte di Luckman, ma vicino a Keanu Reeves (Keanu Reeves!?!) che fa Bob Arctor, direi che va piu' che bene. E' cosi' che va il mondo.


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